MA L'ARTICOLO SI RIABILITA IN PARTE VERSO IL FINALE
Marzo 12
Ecco cosa vuole L'altra Europa con Tsipras
di Guido Viale
Qual è il programma con cui la lista L'altra
Europa con Tsipras si confronta con il suo potenziale elettorato?
Abbiamo sempre detto che quel programma si
costruisce in corso d'opera, attraverso la partecipazione di chi sostiene il nostro
progetto e soprattutto dei tanti gruppi organizzati che hanno buone pratiche o
lotte esemplari da proporre come modelli da generalizzare. Naturalmente il tutto si deve sviluppare lungo i binari che sono stati
tracciati dall'appello di Barbara Spinelli e dei promotori e dalla
dichiarazione programmatica di Alexis Tsipras.
Vale a dire che con questo progetto si respinge tanto l'accettazione
passiva delle politiche di austerità che stanno portando un
numero crescente di cittadini europei e l'intero edificio dell'Unione verso la
catastrofe, quanto l'idea
che si possa "uscire dalla crisi" con un recupero delle
sovranità nazionali - ben sintetizzato dalla proposta di
"uscire dall'euro" - a cui si affiancano spesso reviviscenze
nazionalistiche o, peggio, fasciste. Noi della "lista Tsipras" vogliamo più e non meno Europa, ma un'Europa democratica, federalista, rispettosa dei
diritti di tutti e delle autonomie locali, pacifica ma forte, inclusiva,
sottratta al dominio della finanza.
Una buona traccia intorno a cui lavorare per definire
il nostro programma sono i dieci punti elencati nella dichiarazione programmatica
di Tsipras. Alcuni vanno precisati, perché nella loro
formulazione attuale potrebbero anche dare luogo a equivoci (per esempio, dove
si parla di infrastrutture,
occorrerebbe precisare che non stiamo parlando di Grandi opere, ma dell'esatto
contrario: tante piccole
opere per rimettere in sesto il nostro territorio, i nostri edifici, il nostro
patrimonio culturale, i nostri beni comuni).
Alcune altre cose mancano, e per noi non sono di poco conto
(per esempio, il reddito minimo garantito, la riduzione
dell'orario di lavoro, la tassa sulle rendite, sui patrimoni e sulle
transazioni finanziarie). Altre ancora, relative alla democrazia e ai diritti
della persona, non sono nemmeno nominate perché rimandano ai tre
principi contenuti nella prima parte della dichiarazione. Ma
più che concentrarci su questi punti per allungare l'elenco (si
rischierebbe di produrne uno senza fine e illeggibile) è decisamente
meglio fissare l'attenzione sui tre principi che li inquadrano per cercare di esplicitarne la
logica alla luce degli esempi concreti che
l'esperienza pratica di ciascuno di noi può contribuire a definire.
Anche perché la logica di questi
principi è rivoluzionaria, di una radicalità sufficiente non solo a distinguerci, ma a marcare una
netta contrapposizione verso tutte le altre formazioni politiche che
parteciperanno alle prossime elezioni europee. PD, Pdl e 5S, infatti, non hanno un
vero programma per l'Europa; partecipano a queste elezioni solo per
avere un'affermazione o una conferma da far valere nel gioco politico
nazionale. Noi invece
siamo nati, come "lista Tsipras", per giocare la nostra partita in
Europa, che consideriamo il terreno principale dello scontro politico, sociale,
e anche culturale, del nostro tempo; il che ovviamente non significa
trascurare le conseguenze che una nostra affermazione (ancorché modesta)
in queste elezioni potrebbe avere anche sul quadro politico nazionale.
Dunque, quali sono le logiche radicali dei tre principi di Tsipras, cioè
dell'abolizione
dall'austerity, della riconversione ambientale e delle politiche di
inclusione?
Su che cosa significa abolizione dall'austerity
bisogna essere chiari e nessun economista finora lo è stato
abbastanza. Il debito
pubblico dell'Italia, come quello della Grecia, del Portogallo e, in un
prossimo futuro, di molti altri Stati, è insostenibile. Nessuna
politica di salvaguardia dei diritti di cittadinanza, lavoro, reddito, salute,
istruzione, giustizia, nessuna politica di sviluppo umano e meno che mai
nessuna politica di rilancio della "crescita" (per chi
crede che la soluzione dei nostri problemi stia nella crescita del PIL) è perseguibile
entro i vincoli del pareggio
di bilancio o, peggio, entro quelli del fiscal compact, che prevede la restituzione (alle banche!) di oltre mille
miliardi, sottratti ai redditi di chi ancora ne ha uno, entro i prossimi vent'anni.
Come sostiene Tsipras nella sua dichiarazione, quei debiti vanno
rinegoziati per ottenerne una sostanziale riduzione, sia attraverso la mutualizzazione di una loro parte sostanziale, sia attraverso la loro remissione, sul modello di quanto fatto nei confronti
della Germania con la
conferenza di Londra del 1953. Tutto ciò non può essere imposto
da un solo paese (equivarrebbe a un mero fallimento, che vorremmo evitare), ma deve essere
proposto e sostenuto da una coalizione dei paesi che lo presentino come unica
alternativa praticabile non solo al proprio fallimento, ma a quello dell'euro e
dell'intera costruzione europea. Per questo andiamo in Europa con
Tsipras e non
ci rifugiamo nelle nostalgie di una immaginaria autonomia nazionale.
Anche sulla riconversione ambientale bisogna essere
chiari. Non è, o
non è solo, green economy, cioè passaggio
da prodotti e tecnologie rovinose per l'ambiente e prodotti e tecnologie meno
dannose e più sostenibili (tanto più che la cosiddetta green
economy è sempre di
più risucchiata nel gorgo impietoso della finanziarizzazione,
cioè della mercificazione di quanto resta della natura, secondo il
principio "chi inquina paga", che nella migliore delle ipotesi - e oggi
lo si vede bene - significa solo più: "paga e potrai inquinare").
La conversione ecologica non è un processo
che possa essere governato dall'alto, con dei semplici piani di investimento,
che pure sono indispensabili. Occorre basarsi sulla diffusione
capillare di impianti, interventi, pratiche e mercati diffusi e
"territorializzati", e una transizione del genere può solo realizzarsi attraverso la partecipazione diretta delle
comunità che vivono o lavorano nei territori che la promuovono.
Ma la conversione ecologica è anche l'unico modo per sostenere un piano generale del
lavoro e una politica industriale in grado di garantire a tutti, insieme alla salvaguardia del
territorio e del pianeta, occupazione, reddito e replicabilità in
ogni angolo della Terra.
Tutto ciò richiede una forma diversa di governo della produzione e
dell'impresa, sia pubblica che privata, dove accanto al management - o in sostituzione del "padrone
che lascia" o delocalizza - abbiano voce anche le
maestranze, le organizzazioni di cittadinanza che operano sul territorio, le
università e le istituzioni di ricerca e il governo locale. A condizione che i sindaci sappiano assumersi le
responsabilità che loro competono, attraverso forme di coinvolgimento e di
partecipazione della cittadinanza attiva. E soprattutto attraverso la
riconquista e la gestione diretta dei servizi pubblici locali.
Come è ovvio, tutto
ciò è incompatibile con il patto di stabilità interno, che strangola la finanza
locale, e con essa la democrazia di prossimità. Una questione che
rimanda, in modo indissolubile, al punto precedente.
Infine
l'inclusione porta in
primo piano le
politiche da adottare in tutta Europa attraverso la condivisione degli oneri e delle
opportunità comportati da una scelta di accoglienza nei confronti dei
migranti, dei cittadini stranieri, dei profughi sia politici che economici che
ambientali. È questo un problema che ha messo in
luce e sta
alimentando il volto peggiore dell'Europa e che deve invece essere affrontato di pari passo con la difesa dei
diritti della persona per tutti coloro a cui vengono negati, relativamente a nascita, fine vita,
convivenza, salute, istruzione, casa e lavoro, soprattutto.
Ma sarebbe un
errore fatale separare questi ambiti e stabilire delle false priorità, come quelle che ci vengono tutti i giorni riproposte, a volte con
un segno apertamente razzistico, a volte in forme
mascherate da una pretesa di razionalità: tipo,
prima gli italiani e poi gli stranieri;
oppure,
prima i diritti dei lavoratori e poi quelli
di tutti gli altri;
prima il lavoro e poi i diritti
civili, la parità di genere, il matrimonio gay, ecc.;
prima i capifamiglia e poi le loro mogli o i
loro figli...
Perché, se non si parte dagli ultimi, per risollevarsi poi tutti
insieme, non si aiutano e non si fanno gli interessi neanche dei
penultimi o dei terzultimi.
Si creano o si rafforzano solo delle
divisioni, che sono quelle su cui contano quelli che "contano" per
tenerci divisi e continuare a esercitare il loro potere.
Anche questo va detto con forza e convinzione.
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