da: www.rifondazione.it
Un bel ricordo, scritto da una comunista ultraottantenne, per chi come me non vuole dimenticare la cultura rivoluzionaria, sia pure fortemente antropocentrica, degli anni 60 e 70 ma anche per i giovani che non la conoscono proprio.
Addio a Giuseppe Chiarante.
Tutta la saggezza e le speranze
degli anni '60
di Rossana Rossanda
Quel che è più triste dell'invecchiare è il perdere gli amici d'una vita. Quelli un poco più anziani di me
se ne sono in gran parte andati, e anche diversi più giovani. Fra essi era
Giuseppe Chiarante, Beppe, dal bel viso sereno e la voce tranquilla; lo
conoscevo da non so quanto, più di mezzo secolo e abbiamo a lungo lavorato
insieme, oltre che spartire le corse fuori porta, quando eravamo giovani e
vispi settentrionali nella dorata Roma. Era l'amico e sodale
di Lucio Magri, i due poco più che
ragazzi della sinistra cattolica di Bergamo, negli
anni '50 la città più inquieta della enorme Democrazia cristiana.
Erano una fronda, facevano insieme "il
ribelle e il conformista", avevano
finito con l'iscriversi al Pci, assieme ai grandi, i deputati Mario Melloni, Fortebraccio, e Ugo Bartesaghi. Non erano soli, altri ne
condividevano molte idee senza però fare il salto. E non potevano essere più
diversi nel carattere: quanto Lucio era prometeico,
asseverativo, ostinato, tanto Beppe era prudente, pur nell'autonomia delle
scelte, dialogante, aperto anche al
dubbio. Lucio aveva le qualità del
capo, Beppe quelle del saggio.
Negli anni '60, quando fui
chiamata a Roma per dirigere la sezione culturale in via Botteghe Oscure, Beppe
ne fu incaricato come me e con me rimase finché fui allontanata, prezioso nel
lavoro e nei rapporti, coltissimo, leale.
Giuseppe Chiarante |
Dei '60 condividemmo
le speranze, cui il partito credeva di meno. Non so quanto contasse in lui l'essere
cattolico, il suo riserbo non mi permetteva domande, ma la questione
fra comunisti e cattolici gli stava molto a cuore, alimentata da quel Concilio
Vaticano II che sembrò aprire tutte le strade e che i pontefici successivi a
Giovanni XXIII chiusero, lentamente, forse senza una precisa intenzione Montini, con una accelerazione Karol
Woytjla e non senza brutalità Ratzinger. L'incontro
fra le due culture non doveva essere quello fra Dc e Pci, ma proprio fra una ispirazione di fondo che
parve privilegiare i valori invece che i consumi, i
"fondamentali" invece che le manovre. Ma anche una comune avversione a quello
che il Pci chiamava, con la scusa di Gramsci, economicismo, in chiunque si occupava di più del capitale - la famosa struttura - che delle vicende politiche,
l'altrettanto famosa sovrastruttura. Su
questo d'altronde Enrico Berlinguer avrebbe tentato negli anni '70 quel
compromesso storico che non funzionò. Nei '70 il Pci era già meno comunista
e la Dc meno
cristiana di quanto fossero venti anni prima. Alla commissione culturale facemmo due convegni
nei quali l'apporto di Chiarante fu decisivo: uno sulla famiglia, che
contribuì alla fama di eterodossia che
presto ci avvolse - eravamo antifamilisti e anticlericali
- per cui Nilde Jotti e Emilio Sereni ci
criticarono assai, e uno sulla
scuola, sulla
scia di quel Convegno sulle tendenze del capitalismo italiano che era stato
organizzato dall'Istituto Gramsci nel 1962 e segna una prima linea, se non di rottura, di divisione nell'analisi che il partito faceva sulla situazione. Pur pensando in gran parte come noi, Chiarante non ci
seguì nella vicenda del manifesto: e
non per mancanza di coraggio ma per la persuasione che non
sarebbe bastata una forza minoritaria a produrre in Italia un cambiamento.
La sua posizione fu dunque non poco
scomoda, perché restò nel Pci ma votando,
assieme a pochi altri, contro la nostra radiazione.
E del Pci seguì le sorti agitate, alleandosi
con la mozione del "no" sulla
svolta, negli anni
turbolenti che seguirono l'89.
Sperò anche lui in una presa di
posizione fondamentale che si sarebbe dovuta prendere alla riunione di Arco e
non fu presa. Da allora il
Pci venne via via perdendo molti compagni, non occhettiani né dalemiani, ma
neppure in consonanza con Rifondazione.
Con Aldo Tortorella
salvò dall'estinzione Critica marxista, che ha diretto assieme a
lui assieme alla Associazione per il rinnovamento della sinistra, che opera
tuttora cercando di riunificarne gli spezzoni non su proposte politiche
estemporanee a breve, ma su un filone culturale ed etico, per la cui mancanza il Pci e poi il Pds avrebbero cessato di
esistere. La
confusione che seguiva nell'ex Pci ad ogni cambiamento di nome, impedì al
partito di compiere ogni sforzo per trattenere loro, ma prima Ingrao, poi
Bertinotti, e poi altri ancora, senza rendersi conto che stava perdendo l'essenziale del suo
patrimonio politico ed umano.
Quando decidemmo come manifesto di
riprendere una nuova serie del mensile sul quale eravamo nati, Chiarante lavorò con noi. E parallelamente
scriveva, oltre che su Critica marxista, i tre volumi di storia del Pci (La fine del Pci.
Dall'alternativa democratica di Berlinguer all'ultimo Congresso 1979-1991,
del 2009, Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto
del centrismo al compromesso storico 1958-1975 del 2007 e Tra De Gasperi e Togliatti. Memorie
degli anni Cinquanta del 2006), tutti pubblicati dall'editore Carocci, che sono
una miniera di dati.
Nel confronto con Il sarto di Ulm di Lucio Magri si vede
la differenza dei caratteri: Magri è sempre sui limiti di quel che il Pci
avrebbe potuto fare, Chiarante si attiene a
una documentazione e testimonianza niente affatto asettica, appena un po' meno
spietata.
Oltre a questo, Beppe
sperò a lungo come senatore che fosse perseguibile una difesa coerente del
patrimonio culturale del paese, preceduto
dalla compagna della sua esistenza, Sara Staccioli. Li vedevo assieme anche
alle grandi esposizioni di Parigi, finché le condizioni di salute gli permisero
di vedere: la perdita della vista fu, fra i mali
che lo hanno assalito da anni, quello che lo tormentava di più.
L'ho visto per l'ultima volta alcuni mesi
fa, con l'indomita Sara che lo portava a un concerto all'Auditorium; era come sempre affettuoso ma
stanco, molto.
Addio, caro Beppe,
compagno ed amico. Il mio universo non è più lo stesso, ne guardo l'orizzonte e
troppe sono le assenze.
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