Due studenti di scienze politiche dell'Università di Bologna scrivono a La Voce di New York le ragioni del loro voto
Andrea Pesce e Luca Rizzotti, studenti di scienze politiche a Bologna
Crediamo che lo slogan “Basta un sì” sia carico di tristezza. È l’immagine della disaffezione, della delega: basta un sì, poi ci pensiamo noi. Anche noi vorremmo che molte cose in Italia cambiassero, ed è per questo che votiamo no a questa riforma che, sfatiamo l’ultimo mito, non tocca nessuno di tutti i problemi impellenti italiani .
di Andrea Pesce e Luca Rizzotti - 18 novembre 2016
Siamo due studenti di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, e qualche settimana fa, dopo aver letto l’ennesimo articolo che argomentava le ragioni del sì, abbiamo deciso di preparare una risposta. Ne è nato questo documento.
La propaganda organizzata dai promotori del sì, è stata caratterizzata dalla contrapposizione tra “l’Italia che dice sì” e che vuole il cambiamento, e i conservatori, “che sanno solo dire no”. A prevalere è la voglia di “vincere” e non di convincere. Bollare il no come conservatore è semplice, approfondirne le ragioni complesso.
Renzi non ha resistito, all’inizio, a dare un valore politico al referendum, annunciando che si sarebbe ritirato dalla scena in caso di sconfitta. Poi ha cambiato strategia e ha cominciato ad accusare molti sostenitori del no di voler semplicemente spodestarlo, senza entrare nel merito della riforma .
Ciò detto, il fatto che vi sia una parte di elettori che darà un voto contrario (o favorevole) a un governo, o a un singolo uomo, non implica che votare no sia di fatto sbagliato.
Altro discutibile argomento della campagna del sì è quella del “voi votate come quelli là”. Sì, noi votiamo come Casapound, né più nemmeno di come i Dem votino con Verdini. Tra “come” e “con” c’è però una differenza abissale. Se Salvini dovesse riformare la costituzione scriverebbe qualcosa di diametralmente opposto rispetto a quello che scriveremmo noi, perché diverso è il punto di vista sulla società. Renzi e Verdini invece hanno evidentemente la stessa idea di Stato, cosa che dovrebbe far riflettere.
Purtroppo il referendum è qualcosa di necessariamente binario, che in un sistema politico così frazionato, può creare degli apparentamenti aberranti.
Una cosa accomuna, da poche settimane, i sostenitori del sì e i sostenitori del no: la riforma avrebbe potuto essere scritta meglio. Curioso che gli estensori se ne accorgano dopo due anni di discussioni. Verosimilmente, la compagine del sì ha preso atto dei sondaggi e si rivolge al pubblico degli indecisi. In ogni caso il cavallo di battaglia è che “si può migliorare ma intanto facciamo qualcosa dopo anni di immobilismo”. Ma immobilismo rispetto a cosa? Il no potrebbe essere visto, semplicemente e ragionevolmente, come rifiuto a un cattivo progetto. Si inneggia al “cambiamento” sostenendolo con “Meglio di nulla”, “Il meglio è nemico del bene”, “Almeno qualcosa si muove”. Già, si muove, ma verso dove? Siamo dell’idea che una riforma costituzionale non possa e non debba seguire i vari “Meglio di niente” o peggio “Poi non si cambia più”.
I cambiamenti non sono necessariamente sempre positivi, e devono essere valutati nello specifico.
Le Costituzioni sono pensate per durare per generazioni, non sono bonus fiscali, o un ponte, e nemmeno una politica agricola: sono la premessa di ogni azione che abbia carattere politico. Cambiando la costituzione si agisce sulla totalità degli ambiti su cui la politica ha potere, e per questo una sua riforma deve essere ponderata e soprattutto condivisa. È d’obbligo scomodare Calamandrei:
“nel campo del potere costituente il governo non può avere alcuna iniziativa, neanche preparatoria”, e “quando l’Assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti”.
Suggerimento rimasto inascoltato dall’attuale governo, che si è fatto diretto promotore della riforma nel disegno di legge Boschi. Ricordiamo che l’Assemblea Costituente approvò il testo con 453 favorevoli e 62 contrari. Democristiani e comunisti trovarono un compromesso e votarono insieme, in anni in cui la contrapposizione era violenta. Oggi il compromesso è mancato: la riforma è espressione della maggioranza di governo e del gruppo di Verdini, che da mesi funge da stampella all’esecutivo.
Il fatto che sia un esecutivo a condurre la riforma della costituzione è inaccettabile, la mancanza di un contraddittorio pure.
Nel merito
Come cambia l’iter legislativo?
Uno dei più importanti obiettivi della riforma è il superamento del bicameralismo paritario, secondo l’assunto: “con questo referendum l’iter legislativo diventerà finalmente rapido e in linea con il resto dell’Europa”. E’ bene ricordare che il “rimpallo” tra una Camera e l’altra tocca solo il 20% delle leggi approvate. Per molte l’intesa viene raggiunta alla terza votazione. (Nella XVI legislatura soltanto il 4% è andato oltre la terza lettura, nella XVII, l’attuale, nemmeno il 3%). I tempi dipendono fortemente dal soggetto promotore dell’iniziativa, lo vedremo più avanti: per approvare le leggi di iniziativa governativa, cioè l’80% delle proposte che divengono legge, servono in media 172 giorni, meno di sei mesi . Un tempo coerente con l’attività legislativa di Francia, Germania, Regno Unito e Spagna. Quando invece non è il governo a proporre una legge, i tempi di approvazione si dilatano incredibilmente. Per quelle di iniziativa popolare servono in media 420 giorni, per quelle di iniziativa parlamentare addirittura 504. I “ping pong” sono dovuti principalmente al pluralismo e alla frammentazione partitica italiana e non alla Costituzione.
Dove c’è convergenza e volontà politica, le leggi si approvano senza troppi ostacoli (vedi Lodo Alfano, 20 giorni, Porcellum, 3 mesi, ma anche la Buona Scuola, circa 4 mesi). Ostacoli che peraltro possono insabbiare proposte di legge anche in presenza di una camera soltanto, attraverso i passaggi dall’aula alle commissioni.
La riforma proposta prevede una moltiplicazione dei procedimenti legislativi, cioè le possibili strade per approvare una legge. Per 16 temi resta il bicameralismo perfetto: leggi costituzionali e di revisione costituzionale, leggi ordinarie elettorali, disposizioni riguardanti i referendum e le leggi di iniziativa popolare, la partecipazione dell’Italia all’UE, la ratifica dei trattati internazionali, gli enti locali, e altro ancora.
Le leggi spesso però vertono su una pluralità di materie (come i decreti “omnibus” o “milleproroghe”): e allora quale procedura seguire in tali casi? La “nuova” costituzione prevede che saranno i presidenti delle camere di comune accordo. E se non si accordano? L’organo che si riterrà leso farà ricorso alla Corte Costituzionale. Sarebbe questa la semplificazione?
La lentezza del procedimento normativo attuale è quindi una tesi molto debole e la rapidità di quello futuro rimane al massimo un auspicio.
Ricordiamo che comunque i sostenitori del no, per la maggior parte, sono favorevoli al superamento del bicameralismo perfetto, attraverso però soluzioni più efficaci .
Come cambia la composizione del Senato?
Palazzo Madama a Roma, sede del Senato della Repubblica
Con la riforma cambiano sensibilmente sia la natura che la composizione del Senato. Il nuovo Senato della Repubblica non rappresenterà più la Nazione, ma le istituzioni territoriali esercitando “funzioni di raccordo fra lo stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica”. Non potrà legiferare su tutto, ma, come abbiamo visto, solo su alcuni temi. I senatori non saranno più 315, ma 100: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci, 5 senatori, nominati dal Presidente della Repubblica. Avremo quindi una Camera con 630 deputati e 100 senatori. Una proporzione sbilanciata. Il nuovo Senato rappresenterà prevalentemente le Regioni attraverso i consiglieri regionali, che avranno quindi doppia carica e non saranno eletti direttamente dal popolo ma con metodo proporzionale all’interno delle assemblee regionali, “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”. Le modalità però non sono definite. Lo saranno, come in molti altri casi, con legge futura. Possiamo comunque intuire che, basandosi su criterio proporzionale, a rappresentare la Regione, in Senato, ci saranno la rispettiva maggioranza e le opposizioni. In questo modo è probabile che le due fazioni votino secondo la linea di partito, non rappresentando quindi la Regione e i suoi interessi. Ma il Senato non doveva “esercitare funzioni di raccordo tra Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica”?
La rappresentanza dei nuovi senatori non sarà dunque “territoriale”, ma “politica”.
Capitolo sindaci: questi rappresentano le relative entità territoriali, ovvero i comuni. Ma questo porrebbe 21 comuni in una posizione inspiegabilmente privilegiata rispetto agli 8000 totali. Un pasticcio giuridico e logico.
Più o meno come la componente del nuovo Senato nominata dal Presidente della Repubblica. Resteranno in carica 7 anni, senza possibilità di rinnovo. Mentre ora sono 5 su 315, con la riforma sarebbero 5 su 100: un aumento ingiustificato del loro peso, che triplica, portando a configurare questi 5 come un “partitino” del Presidente della Repubblica, visto anche che il loro mandato dura esattamente come quello del Capo dello Stato.
Per chiudere questo tema, c’è da riflettere sul fatto che le amministrazioni locali in Italia sono il cuore del funzionamento – e in alcuni casi malfunzionamento – del Paese. Appesantire ulteriormente i loro dirigenti con qualifiche extra non ci pare complessivamente una buona idea.
Saldi di tutti i tipi
Campeggiano per l’Italia i manifesti secondo i quali votando sì “si riducono i costi della politica”. Vediamo allora come diminuiscono. Con la riforma i risparmi derivano dal fatto che i senatori non sarebbero pagati per le loro funzioni parlamentari. Riceverebbero comunque il rimborso per le trasferta a Roma, mentre rimarrebbero le spese per il funzionamento dell’organo, come immobili e personale. Il risparmio sarà di 49 milioni di euro, contro poco meno di 500 del costo attuale, perciò del 9%, diminuendo però del 68% il numero dei senatori che ci rappresentano. Pagheremo quindi ancora circa 450 milioni di euro, per un Senato che a detta di Renzi si riunirebbe una volta al mese. Un “prezzo” onesto da pagare per rinunciare all’elezione diretta dei rappresentanti della camera alta del Parlamento?
I costi della politica però includono tutte le 165 mila “poltrone” (province già escluse) in Italia, e la riforma ne elimina 280 in tutto tra Senato e Cnel, quindi circa 0.17%, una percentuale minima.
Ovviamente si devono sommare gli 8,7 milioni di risparmi ottenuti dall’abolizione del Cnel, che sono, in termini relativi, poca cosa. La riforma costituzionale inoltre eliminerebbe formalmente le province, sostanzialmente già soppresse con la legge Delrio, non comportando nessun guadagno per il bilancio.
La riduzione dei costi e delle poltrone non ha quindi un grande valore e, in assoluto, è un non-argomento. Ci pare l’ultimo dei temi interessanti in un dibattito sulla Costituzione.
Cultura, Sanità e Regioni: questi sconosciuti
Non molti lo sanno, ma il referendum del 4 dicembre tocca anche l’ambiente, la cultura e la sanità.
La normativa in vigore prevede, per quanto riguarda la cultura, che allo Stato spetti la tutela del patrimonio culturale italiano e alle regioni la valorizzazione. Ma l’impossibilità di fissare il confine tra le due, ha generato negli anni un enorme caos che ha influenzato in negativo il governo del nostro patrimonio culturale. Un’altra occasione persa. La riforma in oggetto, infatti, prevede che allo stato torni l’intera legislazione su tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Fin qui tutto bene. Peccato abbiano assegnato alle Regioni la promozione del patrimonio culturale. Finora queste, a causa del loro compito di “valorizzare” hanno istituito diversi uffici in giro per il mondo con il preciso scopo di portare fuori dai confini italiani la nostra cultura. La campagna per il sì urla che questa revisione costituzionale farà chiudere alle regioni questi uffici all’estero generando un risparmio. Ma se si pensa al governo Renzi e a tutto il suo discorso pubblico allora si comprende che promozione ha un significato ben preciso: marketing. Non capiamo dunque come potranno chiudere questi uffici all’estero.
Riscontriamo la stessa approssimazione anche nella nuova disciplina del governo del territorio e dell’ambiente.
L’articolo 117, infatti, riserva senza equivoci allo Stato la legislazione in fatto di «produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia e di infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale». Ci chiediamo come si stabilirà cosa è o non è di interesse nazionale o internazionale: libertà di interpretazione. Insomma: le Regioni vengono volutamente escluse dal tavolo delle trattative su come utilizzare il suolo. Le comunità locali vengono espropriate del diritto di decidere sul proprio futuro ma vengono richiamate quando si tratta di fare marketing sul proprio patrimonio culturale, e il proprio territorio.
Un altro tema presente nella riforma è quello della sanità. Si promette una uguale tutela della salute dei cittadini, con trattamenti omogenei nelle Regioni, sulla base dell’introduzione nel comma 4 dell’articolo 117 delle “disposizioni generali e comuni per la tutela della salute”. Lo stesso comma dello stesso articolo prevede già la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
Lo Stato già ora stabilisce i LEP (livelli essenziali di prestazioni) ed i LEA (livelli essenziali di assistenza), ovvero degli standard comuni a tutte le regioni. Dettare disposizioni generali alle Regioni però non garantisce un reale e uguale trattamento sanitario in tutta Italia. Questo perché il vero problema del diritto alla salute sta nel fatto che è un diritto che “costa”, ovvero un diritto che dipende in modo vitale dai fondi stanziati per esso. Si possono anche fissare i livelli essenziali più ambiziosi, ma se le Regioni non hanno finanziamenti sufficienti, le prestazioni non potranno concretamente essere garantite, e sappiamo le enormi differenze tra Regioni per l’indisponibilità economica e quindi anche per l’offerta sanitaria. Sarebbe già presente in Costituzione un rimedio al problema, per sopperire a queste disparità: il Fondo Perequativo, che però non è mai stato attivato compiutamente. Rimane il fatto che i fondi elargiti dallo Stato alle Regioni per la sanità (e non solo) vengono ridotti sempre più. E’ inutile quindi che il nuovo articolo 119 preveda “indicatori di riferimento di costo e fabbisogno”. Tutto dipende dai finanziamenti che lo Stato concede alle Regioni e che queste raccolgono, e non hanno quindi niente a che vedere con la Costituzione. La riforma costituzionale non va quindi ad agire sull’effettiva uguaglianza di prestazioni sanitarie nel paese.
Referendum e leggi di iniziativa popolare
In un periodo storico in cui la disaffezione alla politica è fortissima e la partecipazione dei cittadini è esigua, speravamo che la riforma costituzionale andasse incontro a queste difficoltà. Le aspettative vengono nuovamente disattese. Per i referendum abrogativi è previsto un quorum più basso, ma solo col raggiungimento delle 800 mila firme, una soglia quasi mai raggiunta. Le firme necessarie per le leggi di iniziativa popolare vengono triplicate, da 50 a 150 mila. La riforma introduce i referendum propositivi e d’indirizzo, ma li rimanda come suo solito a future leggi di attuazione. E così anche per l’obbligo di discussione delle leggi di iniziativa popolare, che rimane un ennesimo rinvio.
È normale che in costituzione si rimandi a future leggi di attuazione e ai regolamenti parlamentari, ma non è normale che ci chiedano di barattare future migliorie, che non sapremo se e in che modo verranno rese effettive, con l’immediata, concreta rinuncia a garanzie.
Finalmente stabilità!
Tra i cavalli di battaglia del comitato per il sì, c’è sicuramente la maggiore stabilità che si otterrebbe in caso di vittoria. Questo perché, con la riforma, il governo dovrebbe ricevere la fiducia solo dalla Camera e non dal Senato.
La storia dell’esecutivo in Italia è travagliata, ma essenzialmente a causa di conflitti politici, come il correntismo all’interno dei partiti e le richieste dei partiti minori delle coalizioni. Tutto ciò per ricordare che la stabilità dei governi dipende significativamente dalla situazione partitica e dalle leggi elettorali. Le principali modalità attraverso cui i riformatori pensano di garantire un governo stabile, sono inserite nell’Italicum: premio di maggioranza, ballottaggio, indicazione diretta del Primo Ministro.
Proprio i punti che adesso promettono di modificare: un cane che si morde la coda. Nonostante i correttivi puntino a stabilizzare il governo, serve precisare che è sufficiente che la maggioranza si divida al suo interno (la divisione nel PD, tutt’altro che fantasiosa, o in un possibile governo M5S) per far cadere il governo.
Per di più, chi ha scritto la riforma, ha tralasciato uno dei pochissimi dispositivi che può garantire effettivamente più stabilità al governo: la sfiducia costruttiva, meccanismo (utilizzato in Germania) per il quale un Primo Ministro, e il suo governo, possono essere sfiduciati e destituiti soltanto se il Parlamento elegge al contempo un successore. Il Parlamento, insomma, deve avere un piano B prima di provocare il caos. Con questo automatismo si possono evitare le cosiddette “crisi al buio”, i ricatti di partiti della coalizione di maggioranza o correnti della stessa che minacciano di far cadere il governo per vedere tutelati i propri interessi. In sostanza, un’occasione persa.
E la legge elettorale?
Più volte il fronte del sì ha ricordato come il referendum non tocchi la legge elettorale.
Noi crediamo che una legge elettorale sia appendice necessaria di una Costituzione, e che sia necessario considerarla nel dibattito. Non si può fingere che la composizione dei rami del Parlamento sia slegata dalla modalità di elezione.
Conclusione
l’Italia è piena di problemi, è vero: l’instabilità di governo, gli eccessivi sprechi delle amministrazioni pubbliche, la corruzione, la disaffezione dei cittadini per la cosa pubblica, l’educazione e la sanità che non hanno fondi sufficienti. E poi l’evasione fiscale, per una cifra che è circa 170 miliardi quindi il 10% del Pil. Le tasse troppo alte, la disoccupazione, il sistema bancario instabile. Sappiamo anche noi che l’Italia ha tutti questi problemi e molti altri. Li riconosciamo e siamo indignati almeno quanto voi. Vorremmo che le cose cambiassero, ed è per questo che votiamo no a questa riforma che, e finalmente sfatiamo l’ultimo mito, non tocca nessuno di tutti i problemi elencati sopra.
A Siena nel 1309 si decise di scrivere la costituzione in volgare e di attaccarla con delle catene sui palazzi pubblici. Questo per permettere a tutti di leggerla un testo di cui gli autori andavano fieri. Ci auto-definiamo una società all’avanguardia. È tutta questione di punti di vista.
Crediamo che lo slogan “Basta un sì” sia carico di tristezza. È l’immagine della disaffezione, della delega: basta un sì, poi ci pensiamo noi. Si vende come “l’ultima occasione” che giustifica la cambiale in bianco in molti punti di questa riforma. Dateci adesso il vostro sì e non vi scomoderemo più, non sarete più chiamati in ballo. Per citare un’indecente pubblicità di qualche mese fa: “il piacere di non dover più decidere”.
Quanti sì hanno devastato il paese, quanti sì nelle nostre vite non sono state le scelte migliori. Questa volta, la scelta di votare no è quella più carica di futuro, gravida di speranze.
Ma se credete che il vero problema dell’Italia sia un eccesso di democrazia, che l’eccessiva rappresentanza sia la causa della mala politica allora votate sì.
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Andrea Pesce, nato a Torino 22 anni fa, cresciuto a Roma. Studia Scienze Politiche all’Università di Bologna ma attualmente vive all’estero dove continuerà gli studi. America? Chi lo sa. E’ appassionato di Politica, America Latina e Istruzione. Spera che nel suo futuro lavorativo ci sia spazio per tutte e tre.
Luca Rizzotti, 21 anni, nato e cresciuto a Verona, studia Scienze Politiche all’Università di Bologna. Ama approfondire tutto ciò che è “società”. Per questo nel suo futuro nessuna certezza se non una: lo studio.
http://www.lavocedinewyork.com/news/politica/2016/11/18/perche-noi-giovani-voteremo-no-al-referendum-costituzionale/
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