La strategia del bene comune
di Stefano Rodotà, da
Repubblica, 19 novembre 2013
La legge di stabilità non
è solo la "polveriera" economica di cui ha parlato Tito Boeri. Ha
fatto affiorare vizi culturali profondi, che toccano il ruolo sociale dei beni,
i limiti della discrezionalità politica, e il modo stesso d'intendere la vita
delle persone. Provo a sintetizzare
alcune indicazioni su questi tre punti.
1) In molti paesi è da
tempo in corso una discussione sul grande e ineludibile tema dei beni comuni, che in Italia viene troppo spesso
falsato da una diffusa e spesso compiaciuta ignoranza, e talora distorto da
qualche intemperanza ideologica. Nell'ultimo
periodo non sono mancate ironie sui "benecomunisti", e qualche
aggressione pochissimo informata su alcune esperienze in corso.
Si ignora che questo tema ha dietro di sé una lunga serie di studi e che,
nel 2009, il Premio Nobel per l'economia venne assegnato a Elinor Ostrom proprio
per i suoi contributi alla teoria dei beni comuni (i più importanti sono
disponibili in italiano). In Italia è stato pubblicato un
fiume di libri.
Segnalo soltanto la ricca raccolta di saggi nata da un seminario della Fondazione Basso (Tempo di beni comuni, Studi
multisciplinari... Ediesse, Roma, 2013); il nitido itinerario di Guido Viale (Virtù che cambiano il mondo.
Partecipazione e conflitto per i beni comuni, Feltrinelli,
Milano, 2013); e il
lavoro di uno storico, Andrea Di Porto, che tra l'altro ricorda il lontano punto di
partenza della sentenza della Corte di Cassazione del 1887, che diede ragione
al Comune di Roma contro il principe Borghese che voleva chiudere i cancelli della
Villa, riconoscendo ai
cittadini il diritto di passeggiare liberamente in quel luogo (Res in usu publico e "beni comuni", Giappichelli, Torino, 2013).
Un bagno culturale eccessivo? Ma i parlamentari non hanno bisogno di andare così lontano. Basta che aprano la porta
accanto. Troveranno i testi mandati a tutti loro
all'inizio della legislatura, già strutturati in forma di disegno di legge, sulla disciplina
dell'acqua e sulla riforma del sistema dei beni pubblici, che riproduce i risultati di una Commissione ministeriale e che qualcuno ha già trasformato
in proposta di legge. Perché, allora, ripetere le trite e pericolose
banalità della vendita dei beni pubblici per far cassa, fino alla grottesca vicenda delle spiagge?
In realtà, la questione dei beni comuni non fa storia a sé. Impone
un ripensamento dell'intero ordinamento dei beni pubblici (ai quali
ha dedicato un importante volume l'Accademia dei Lincei nel 2010). Non tutti possono essere attratti nell'area del "comune",
ma non per questo la gran
massa dei beni pubblici diventa disponibile per qualsiasi disinvolta operazione.
Dovrebbe essere chiaro che questi beni
hanno funzioni diverse, e si presentano come beni "ad appartenenza pubblica
necessaria" (opere per la difesa, le
reti viarie e ferroviarie, i porti), "sociali"
(che devono soddisfare bisogni essenziali delle persone), "fruttiferi" (da
gestire con adeguate modalità economiche).
Per quanto riguarda le spiagge, per esempio, le operazioni da fare dovrebbero
essere due. Eliminare
la loro sostanziale
privatizzazione, che per lunghissimi tratti esclude l'accesso ai cittadini,
in forme sconosciute ad
altri paesi. E rendere economiche le
concessioni ai privati, che oggi danno allo Stato un reddito inadeguato (discorso
che può essere esteso ad altri casi, come quello delle frequenze).
Tornando ai beni comuni, la loro definizione rinvia al fatto
che essi sono indispensabili per la soddisfazione di bisogni fondamentali delle
persone. Si istituisce così un nuovo rapporto tra mondo delle
persone e mondo dei beni. E infatti molti documenti nazionali e internazionali parlano, in primo luogo, di accesso
all'acqua, al cibo, alla conoscenza in rete, ai farmaci essenziali, alla tutela
del territorio come di diritti fondamentali, la cui realizzazione esige appunto regole
particolari per quei beni. Tra queste
emergono quelle sulla partecipazione dei cittadini alla gestione, prevista
dall'articolo 43 della Costituzione, che parla di "servizi pubblici essenziali" da affidare
a "comunità
di lavoratori o di utenti". Qui nascono tre problemi.
Rispetto dei risultati di referendum come quello sull'acqua, a
proposito del quale si ha una timida e parziale apertura del ministro per
l'Ambiente.
Non per tutti i beni comuni può essere individuata una
comunità che li
gestisce: come si può inventare questa
comunità tra i tre miliardi di persone che accedono alla conoscenza in Rete? Questo
bene, allora, deve essere qualificato in via generale come comune. E le
istituzioni devono confrontarsi con le esperienze che formulano progetti,
realizzano innovazioni dell'ordine esistente, distinguendo certo, ma senza
trincerarsi dietro rifiuti pregiudiziali.
2) Punto sul vivo, il Presidente Letta ha reagito ai rilievi
dell'Unione europea sulla legge di stabilità, cominciando a riecheggiare critiche sempre più diffuse sugli effetti
negativi delle politiche di austerità. La reazione d'un momento, tutto
sommato strumentale, o l'avvio di un'altra strategia? Si
avvicinano le elezioni europee, e non ci si può limitare a esprimere
preoccupazione per i populismi antieuropeisti, che rischia di trasformarsi in un
inutile lamento. La strategia
europea deve cominciare a prendere coraggiosamente atto che la politica
dell'Unione è stata chiusa nella dimensione economico-finanziaria, amputando del tutto quella dei diritti, affidata alla sua Carta dei
diritti fondamentali, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Questo
"valore aggiunto" è stato in questi anni negato ai cittadini europei
e ha determinato la progressiva delegittimazione delle istituzioni. Da qui
bisogna ripartire, se il Governo vuole davvero dare un qualche senso al suo parlare di Europa. Altrimenti si allontanerà ancora di più
da una società nella quale sta maturando un serio movimento che vuole parlare
di politica "costituzionale" per l'Europa, così come sta facendo per l'Italia. La voce dei cittadini senza demagogia antieuropea deve
esser ascoltata perché, si condivida in tutto o in parte la tesi di Luciano Gallino, è indubbio che sia avvenuto qualcosa
che assomiglia a un colpo di Stato (Il colpo di stato
di banche e governi, Einaudi, Torino, 2013). E i cittadini stanno studiando i modi
per rimettere in discussione quel mutamento dell'articolo 81 che si è voluto
sottrarre ad un loro possibile voto. E per
sfuggire alla subalternità all'economia, bisogna riconoscere che la
discrezionalità politica deve obbedire ai criteri che, per la ripartizione
delle risorse scarse, sono indicati proprio dalla trama
dei diritti fondamentali.
3) La verità è che si è messo in discussione quello
che definisco "il diritto all'esistenza". Divenuti
residuali i diritti sociali, rafforzate le diseguaglianze, si è minata la stessa condizione
dell'efficienza economica (continua a ricordarcelo Jean-Paul
Fitoussi, Il teorema del lampione, Einaudi, Torino, 2013).
Per questo non può essere
allontanata, con
una mossa infastidita, la questione del reddito
minimo (esiste
una proposta d'iniziativa popolare anteriore a quella del Movimento 5Stelle). È tema difficile, per il rapporto con le politiche del lavoro e per il
reperimento delle risorse necessarie, ma ineludibile. E mi pare utile che, dopo una intemperanza
iniziale, Stefano Fassina abbia parlato di un confronto politico su questo tema.
4) Ho citato molti libri.
Ma, se dobbiamo uscire
dalla profonda regressione culturale che ha reso misera la politica, possiamo farlo senza
buone letture?
(20 novembre 2013)
Nessun commento:
Posta un commento