di Daniela
Padoan
Sempre più vedo il confine messo a
dividere uomo e animale come
intimamente connesso a una domanda cruciale, ineludibile per chi abbia avuto in
sorte di vivere dopo la Shoah: come si è arrivati a programmare e attuare l’eliminazione
industriale di milioni di esseri umani, destituendoli della propria umanità?
Se la modernità ci ha reso ciechi al dolore, alla soppressione, al consumo e allo
smaltimento di esseri viventi prodotti e processati industrialmente come cose, se non siamo capaci di riconoscere e lasciarci
interpellare dal dolore del vivente, come possiamo rispettare gli esseri umani?
Non
si tratta solo di un pensiero animalista, ma di un ragionamento pienamente
politico che – in
bilico tra filosofia e scienza, nella definizione di ciò che è “uomo” e ciò che
non lo è, di ciò che attiene all’umano e di ciò che se ne discosta –
ci porta a un nodo essenziale che si può
riassumere nell’invettiva di Schopenhauer contro l'esclusione degli animali
dall’etica kantiana: "Sia dannata ogni
morale che non vede l'essenziale legame fra tutti gli occhi che guardano il
sole".
Dalle pagine di
Tolstoj contro l’infinito massacro compiuto nei macelli, indietro
fino al pensiero greco di Pitagora ed Empedocle, vediamo che la comunanza del vivente ha
avuto piena dignità nella riflessione teorica e politica.
Si tratta di
una battaglia culturale che va al cuore di ciò che siamo.
Una battaglia che vede sempre più donne e uomini
ribellarsi all’idea che la persona – ovvero il soggetto di
diritto – vada tutelata solo
nell’appartenenza all’umano.
Persona è chi è senziente, chi è capace di affetti, chi,
con il suo sguardo, ci interpella.
A dirlo non sono più personaggi divenuti
icone del pacifismo, come Gandhi, o del pensiero
scientifico, come Einstein, ma politici dal passato resistenziale che non hanno esitato a
imbracciare le armi contro le dittature, come l’attuale presidente dell’Uruguay Pepe
Mujica, ex tupamaro, che ha appena introdotto un decreto legge volto a punire
anche con il carcere immediato chi attenta alle cinque libertà basilari
dell’animale: la libertà dalla fame e dalla sete, la libertà dal
dolore, dalla sofferenza e dalla malattia, la libertà dalla paura e
dall’angoscia, la libertà di esprimere una condotta normale, la libertà dalla
costrizione.
Mettere
il rispetto per l’animale e per tutto il vivente
al centro dell’agenda politica
ha
conseguenze rivoluzionarie, in termini
economici,
etici, educativi, ecologici.
Comporta uno spostamento
nelle pratiche quotidiane,
nell’alimentazione, nella sperimentazione scientifica, nel rigetto della
crudeltà, nell’abbracciare ciò che
vive fuori dalle categorizzazioni e
dalle gerarchie che la nostra cultura ci ha imposto nominandole come natura, e che sono invece espressione di dominio.
La soglia messa
a separare l’uomo dall’animale è friabile, e l’uomo può essere facilmente respinto
verso l’animale (o, per meglio dire, verso il concetto, l’astrazione, lo stigma
contenuto nella parola “animale”); verso il “sottouomo”, l’Untermensch.
Nella
propaganda dei regimi, la costruzione del nemico – e dunque la possibilità
della sua eliminazione fisica – viene attuata con
la destituzione di umanità implicita nel nominare l’altro come animale.
Nell’iconografia nazista gli ebrei sono topi,
parassiti da disinfestare;
in Ruanda, negli incitamenti
allo sterminio fatti dagli hutu, i tutsi erano scarafaggi.
Gli esempi sono infiniti, e sarebbe interessante
interrogare l’indifferenza all’animale che alberga nelle metafore, nelle
similitudini, nelle immagini che usiamo comunemente.
Si dice “andare come pecore al macello” per intendere
persone imbelli e in fondo colpevoli della propria sorte; se però
guardassimo alle pecore come a esseri dotati di sguardo, di volto, una simile
immagine diventerebbe impossibile.
La
lezione di Lévinas sul volto come fondamento dell’etica potrebbe allora
investire il vivente, o almeno varie soglie di prossimità del vivente. Forse è proprio il
nostro negare un volto all’animale, il nostro attribuirlo solo all’umano –
un umano
contrattabile, dal quale escludere di volta in volta i malati di mente, gli
“asociali”, gli omosessuali e tutte le categorie via via considerate inutili o
dannose – a fondare l’indifferenza che permette gli stermini.
Robert Antelme, nel radicale azzeramento di ogni concetto del “bene e del bello” fatto nella sua
prigionia ad Auschwitz, parlava dell’ “eterno movimento del disprezzo” come voragine della nostra cultura: credo che cominci dal disprezzo
dell’animale. Ed è da qui che occorre rifondare la nostra politica come
inclusione.
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