Perché
il suicidio di Brittany non è indegno
come dice il Vaticano
“Il suicidio assistito è un’assurdità” perché “la dignità è altra
cosa che mettere fine alla propria vita.” Le gravi parole di Mons. Carrasco de Paula,
presidente della Pontificia Accademia per la vita, nel severo commento alla vicenda di Brittany Maynard, meritano qualche
riflessione. Innanzitutto, definire
un’assurdità il suicidio significa ignorare deliberatamente un’illustre
tradizione filosofica – la stoica – che rivendica il suicidio razionale come scelta
doverosa da parte del saggio che
non si sente più all’altezza del suo compito. Certo, si tratta di un
pensiero che l’etica cristiana condanna in base al principio che la vita è un
dono divino di cui l’uomo non può disporre. Il suicidio – ci è stato insegnato – è un peccato mortale: l’entrare nell’esistenza come l’uscirne non è nel diretto
dominio dell’uomo, ma solo di Dio.
E tuttavia, che ci piaccia o no, è in nome della propria dignità che Brittany ha deciso di
darsi la morte. C’è la dignità, rispettabilissima, di chi decide di
sopportare la sofferenza fino all’estremo limite, in
una volontaria espiazione o nell’abbandono fiducioso al volere divino,
ma c’è
quella, altrettanto rispettabile di chi rifiuta ogni concezione doloristica e
in nome della propria autonomia,decide di prendere congedo dalla vita, “senza
arrecar danno ad alcun altro”. Parole del filosofo David Hume, un moderno difensore del
suicidio come atto di libertà. Ed è appunto un atto di libertà
quello che ha compiuto Brittany, una decisione
consapevolmente assunta. Ne
conosciamo la storia: quella di una giovane donna che scopre di avere un tumore
al cervello, si sottopone ad un intervento
chirurgico che non riesce però a fermare la progressione del male e che, in
assenza di ogni opzione di cura, decide di porre
termine alla propria vita, sostenuta pienamente dalla famiglia e dal marito.
Si trasferisce in Oregon,
paese che consente il suicidio assistito, e , accompagnata dal medico, si
consegna alla morte.“Non c’è una sola cellula del mio corpo che
vuole morire – ha scritto
-.voglio vivere. Proprio
per questo, però, dovendo morire, ho deciso di farlo alle mie condizioni.”
A differenza di altri casi assai controversi, come
quello ad esempio di Eluana Englaro, la
vicenda di Brittany è estremamente limpida. Ci troviamo infatti dinanzi a una richiesta
esplicita di eutanasia volontaria, una richiesta che proviene da una persona
maggiorenne, nel pieno possesso delle sue facoltà, fermamente determinata nella
sua scelta, che chiede di essere aiutata a morire. Qual è il timore? Che la
richiesta di eutanasia di Brittany possa diventare un’eutanasia di stato,
che da scelta personale si
trasformi in una sorta di obbligo collettivo, un
modello che saremo tutti invitati a seguire? Ancora una volta si deve constatare che parole come
eutanasia – o, in altri contesti, eugenetica – portano con sé una carica ideologica così
forte da evocare irresistibilmente i fantasmi del passato, del nazismo, della
morte imposta a soggetti ritenuti indegni di vivere.
Chi intenda
resistere alla tentazione, fin troppo praticata nel dibattito
bioetico, del cosiddetto ‘piano inclinato’, - ovvero ‘di questo
passo, dove andremo a finire?’-, potrebbe infine, interrogarsi sul ruolo del
medico nel suicidio assistito. Argomento di straordinaria
delicatezza e complessità che dovremmo tuttavia, anche nel nostro paese, cominciare ad affrontare pensando – perché no? – al grande Bacone. Il quale ammetteva l’eutanasia e riteneva che il medico, in talune
condizioni, dovesse avere anche la possibilità di aiutare a morire,
predisponendo tutto in modo che il transito avvenisse nella maniera meno
dolorosa possibile. Una proposta indecente? Una
provocazione scandalosa? Si
ricorderà che, qualche anno fa, il presidente della repubblica, intervenendo
sul caso Welby, aveva posto al Parlamento il problema del diritto di ciascuno
di poter decidere della fine dignitosa della propria vita. In tal modo si era evidenziata la necessità di un incontro
tra piano istituzionale ed esistenza umana: l’esigenza, in altri termini, di una
politica sensibile alle richieste personali degli individui e attenta ai loro
bisogni esistenziali più profondi. Una politica in cui si parli di ben vivere
e, quindi, anche di ben morire.
Luisella Battaglia
Membro del Comitato Nazionale per la
Bioetica
Il Secolo XIX 5 novembre 2014 Prima pagina - Il commento
Nessun commento:
Posta un commento