Da Radio Missione Francescana RMF: Attualità
CARISSIMI RAGAZZI
MARGHERITA GIROMINI - 12/09/2014
Tempo di scuola: bambini, ragazzi e giovani tornano sui banchi. Si riprende il ritmo
regolare della quotidianità. “I nostri
ragazzi” è anche il titolo del film
presentato a Venezia 2014, ora nelle sale cinematografiche di Varese e di
tutta Italia, film da cui ho ricavato un profondo senso
di disagio e di inquietudine.
Proviamo ad
approfittare dell’interesse che pone la scuola, per qualche decina di giorni al
centro dell’attenzione mediatica. Anche se, stando alle notizie, pare non ci sia molto di nuovo: classi
sovraffollate, aule fatiscenti, strutture edilizie degradate (tante: intorno al cinquanta per cento), nomine in ritardo, carosello dei docenti
fino a Natale, libri dal prezzo sempre in lievitazione. Già sentiti, come ogni precedente anno, anche gli annunci ministeriali di grandi riforme epocali.
Vorrei portare
l’attenzione su un argomento più duraturo della breve stagione autunnale: la relazione educativa insegnante / studente. Uno spiraglio sull’importanza, in assoluto, del nodo dell’educazione costituito dall’adulto che educa/istruisce/insegna e dal ragazzo che impara/apprende/cresce/
trova motivazione. Uno spunto per riflettere sull’essenza dell’insegnamento. Ciò che nessun tipo di
test attitudinale, così come nessun concorso, sapranno verificare in modo
oggettivo sono le attitudini di un
aspirante insegnante a stabilire relazioni efficaci, a provare e suscitare
empatia con chi apprende.
L’educazione è un atto delicato e complesso
Bravi insegnanti si
nasce o si diventa? In parte si nasce, cioè si è o meno
portati alla relazione educativa, e in parte lo si diventa, con lo studio, la
formazione permanente, l’esperienza sul campo e il lavoro di équipe. Educare e istruire diventa un compito arduo
in assenza di preesistenti doti di sensibilità, di empatia, di capacità di cura
nei confronti dell’individuo in formazione, insieme con l’amore per la
propria disciplina e per la cultura
che ne deriva.
Un esempio. Non basterà essere geniali
matematici, e nemmeno, con la frequenza di corsi abilitanti e
professionalizzanti, docenti bravi nella didattica, esperti
nelle metodologie, accurati nelle prassi
valutative, per essere dei validi insegnanti.
Non a caso la parola “insegnare” affonda l’etimologia
nel termine “segno”: chi insegna, se lo sa fare nel modo giusto, lascia un segno,
riconoscibile nel tempo. Altrimenti trasmette notizie e informazioni, utili e spendibili
nell’immediato ma soggette
all’usura e alla dimenticanza. Lontane dal risuonare nel
profondo dell’individuo in crescita.
Nelle interviste a
personaggi famosi ricorre spesso la domanda: “Chi le ha insegnato ad amare … la poesia … la matematica … le lingue … il nuoto?”. Quasi
sempre l’intervistato risponde citando un maestro, anzi il Maestro, che, a
scuola o a bottega d’arte, o sui campi dello sport, gli ha trasmesso la
passione che oggi caratterizza la sua vita di successo.
E il film presentato a
Venezia, “I nostri ragazzi” del regista De Matteo? A parte il fatto, tutto
personale, di avermi regalato sonni inquieti, la storia affronta con durezza e linearità il problema dei valori che
trasmettiamo alle nuove generazioni: problema che riguarda chiunque rivesta
un ruolo educativo: a scuola e a casa, nei diversi luoghi di aggregazione
giovanile, per la strada.
Nel film assistiamo ad
un colloquio scuola
famiglia, durante l’ora di ricevimento degli insegnanti.
Di qua, il professore di matematica che lamenta lo
scarso rendimento del ragazzo e altro non vuole sapere o capire delle
eventuali cause dell’insuccesso scolastico; di là, una madre amorevole e protettiva, pronta a capire e a giustificare.
Ragazzi
curati e amati, ma sconosciuti agli adulti che
li hanno in consegna, nonostante
l’apparente serenità borghese delle loro case e delle loro vite.
Dopo aver compiuto un atto gravissimo, i giovani protagonisti non
manifestano né consapevolezza né pentimento. E nella nostra mente
si affollano tante domande. Davvero viviamo in un mondo senza valori? Di chi è
la responsabilità? Chi si sarebbe dovuto accorgere? Dove alberga il potenziale
male di due normali studenti di liceo? Dov’erano
la scuola o la famiglia? Non sarà “colpa” della rete e delle sue mille insidie? Dei video “estremi”
che girano su You Tube?
Forse agli educatori, ai genitori e agli insegnanti servono anche
riflessioni di sociologia e di psicologia che aiutino a leggere
la società. Serve acquisire nuovi
strumenti per cogliere il
disagio, e non solo quello legato alle povertà
materiali; ma anche, oggi più che nel passato, quello derivante dalle povertà culturali e
affettive.
È tempo di un passo
diverso. Non ci risultano, al
momento, formule socio politiche risolutive. Che però andrebbero studiate e
sperimentate perché il cambiamento epocale della scuola passa anche dalle
risposte alle tante domande trascurate. Senza dimenticare
che alla scuola servono più risorse,
e un PIL da primi posti
nelle graduatorie europee, se si vuole restituirle
dignità e considerazione sociale.
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